Associazione che si occupa di disturbi del comportamento alimentare e violenza di genere.

L’empatia esiste e la scienza l’ha dimostrato. L’indifferenza è una patologia.

In una società dominata dall’individualismo, spesso sembra che a nessuno interessi quanto stiamo bene o quanto stiamo male. Ognuno agisce per trarre vantaggi personali, eppure, capita a tutti di guardare in viso una persona e rendersi conto dell’emozione che sta provando, anche se non sta dicendo nulla a parole. Questa capacità che possediamo viene definita “empatia” e ci permette di raggiungere gli stati d’animo di chi abbiamo di fronte, comprendendo i segnali emozionali degli altri, immedesimandoci nei loro pensieri, e assumendo così il loro punto di vista condividendo, con più o meno partecipazione emotiva, i loro sentimenti.

Di empatia si parlava già nell’antica Grecia. La parola deriva dal greco empatéia, da en, dentro, e pathos, sentimento. Significa quindi sentirsi dentro l’altro, percepire come dall’interno i suoi sentimenti. In filosofia il concetto fu approfondito a fine Ottocento, in particolare da Friedrich Theodor Vischer, che coniò il termine Einfühlung indicando con esso la partecipazione emotiva con l’oggetto artistico, l’immedesimazione in esso. Anche Sigmund Freud utilizzò questo termine in Psicologia delle masse e analisi dell’io, riferendosi a un meccanismo che ci permette di assumere un determinato atteggiamento nei confronti di un’altra vita psichica estranea al nostro io. La comprensione empatica venne introdotta poi nella psicoterapia da Heinz Kohut, psicanalista austriaco.

La nostra capacità di immedesimarci nella mente dell’altro ha una base neurobiologica: i neuroni specchio. I neuroni sono cellule altamente specializzate del nostro cervello, e hanno la funzionalità di ricevere, elaborare e trasmettere le informazioni ad altri neuroni attraverso segnali elettrici o chimici. Tramite le sinapsi l’impulso nervoso, o potenziale d’azione, viaggia da un neurone a un altro o da un neurone a una fibra – ad esempio muscolare. I neuroni specchio furono scoperti dall’équipe del Dott. Rizzolatti negli anni Novanta del secolo scorso. Vennero identificati per la prima volta nelle scimmie, in particolare nella specie Macaca nemestrina, e localizzati nella corteccia premotoria, che si occupa, nel nostro cervello, di pianificare ed eseguire i movimenti. Vittorio Gallese, tra i padri della scoperta dei neuroni specchio, sostiene che alla base dell’empatia ci sia un processo di “simulazione incarnata”. Questi particolari neuroni infatti sono anche il motivo per cui riusciamo a ripetere un’azione che abbiamo osservato oppure a capire e interpretare le mosse altrui. Per il nostro cervello è come se stessimo compiendo noi quella stessa azione: funzionano, appunto, come uno specchio.

Noi passiamo la vita a imitare, apprendiamo fin da bambini attraverso l’imitazione e tendiamo a ripetere gli stessi pattern di comportamento di quelli a cui siamo esposti. Questo è il motivo per cui, spesso, i comportamenti violenti o sbagliati dei bambini sono una conseguenza dell’ambiente familiare malsano in cui hanno vissuto.

Dopo la scoperta dei neuroni specchio nelle scimmie, vennero eseguiti esperimenti sugli esseri umani nonché ulteriori test relativi all’imitazione e all’empatia. Nell’uomo essi sono stati localizzati nell’area che comprende il lobo frontale, il lobo parietale e il lobo dell’insula. Quest’ultimo è quello che rielabora le informazioni che provengono dal sistema limbico, il quale supporta le funzioni relative alle emozioni. In questo modo quindi, risulta chiaro il collegamento tra i neuroni specchio e il riconoscimento delle emozioni altrui e, quindi, l’empatia.

Se qualcosa minaccia l’equilibrio psicofisico di una persona, essa percepirà il pericolo e l’emozione provata sarà la paura. In questo caso si attiverà l’amigdala, una ghiandola implicata nell’elaborazione di diversi stati emozionali. Se questa è una persona a noi cara, è probabile che lo stesso pattern motorio si attivi anche nel nostro cervello. Parliamo qui di risposte adattive alla sopravvivenza, come le definì Darwin ne L’espressione delle emozioni, del 1827. “L’emozione dell’altro è costituita dall’osservatore e compresa grazie a un meccanismo di simulazione che produce nell’osservatore uno stato corporeo condiviso con l’attore di quella espressione”, sostiene Gallese.

Pensiamo anche all’empatia nell’arte figurativa. Già i filosofi di fine Ottocento parlavano di empatia con l’opera d’arte come principale fonte di godimento estetico. Nel 2007, David Freedberg, professore di Storia dell’arte presso la Columbia University di New York, e Vittorio Gallese, riscontrarono che l’osservazione di un’opera d’arte sia in grado di attivare il sistema motorio, che si attiva anche di fronte ad azioni finte o ambigue, in questo caso un quadro, ad esempio. Pensiamo alla Sindrome di Stendhal, una manifestazione psicosomatica che può verificarsi di fronte a un’opera d’arte particolarmente evocativa, che consiste in un’attivazione fisiologica con sintomi a livello fisico di tachicardia, vertigini, confusione e allucinazioni davanti alla magnificenza di alcune opere d’arte, e a livello psichico di percezione di un senso di irrealtà dato dall’inclinazione a compenetrarsi con ciò che suscita l’emozione.

Inoltre, questi neuroni, oltre ad attivarsi in seguito a un’emozione nota, lo fanno anche con un certo anticipo (parliamo di millisecondi). Di questo si parla in un libro di Rizzolatti dal titolo So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, nel quale si riscontra il fatto che anticipiamo le emozioni altrui. Nel nostro cervello la sinapsi anticipa il movimento o il sentimento dell’altro e trasduce in potenziali d’azione quelle che noi chiamiamo intenzioni. Quando vediamo una persona che si sta mettendo la giacca in un ambiente chiuso, ipotizziamo che stia per uscire. Il riconoscimento dell’intenzionalità di un’azione altrui definisce l’esistenza di una condivisione dello spazio d’azione tra individui, uno spazio in cui ci muoviamo e che ci porta a interagire con le persone che ci circondano. Comprendendo le intenzioni degli altri, tendiamo a modificare di conseguenza il nostro spazio d’azione e a pianificare il nostro modo di agire. Si tratta, quindi, di un meccanismo che orienta le relazioni e che caratterizza il comportamento sociale.

Un’altra prova l’abbiamo dal fatto che nei bambini con sindrome di Asperger, studi di neuroimaging – tecniche e procedure sperimentali che permettono di osservare il cervello sia a livello anatomico che a livello di variazioni nell’esecuzione di compiti cognitivi – hanno evidenziato il fatto che i neuroni specchio non si attivano adeguatamente in risposta a stimoli esterni: quando parlano senza filtri o non riescono a leggere i segnali emotivi, ad esempio. Infatti essi faticano a comprendere i sentimenti altrui e mancano, appunto, di empatia. La mancanza di empatia è, inoltre, un tratto di alcuni disturbi di personalità, come il disturbo narcisistico o il disturbo borderline: alcuni studi dimostrano una scarsa attività cerebrale nelle zone collegate all’empatia nei pazienti affetti.

Con l’intelligenza emotiva possiamo aprire una porta spazio temporale nell’abisso delle altre persone e scoprirne gli aspetti più reconditi. Essere connessi agli altri è una delle fortune più grandi che abbiamo per capire che in realtà non siamo mai soli, anche quando pensiamo che niente abbia senso e ci sentiamo svuotati. L’uomo non nasce isolato, ma è esposto fin dalla nascita a un’esperienza relazionale che gli fornisce gli strumenti per inserirsi nella società e per creare nuovi e diversi legami adattandosi. Nel corso di tutta la vita ci imbattiamo nella necessità di dialogare, di condividere, di realizzare rapporti che siano caratterizzati da reciprocità. E in una società che ci spinge all’egoismo, alla competizione, e quindi alla fretta dovremmo esercitarci a rallentare, magari fermarci proprio, capire che la vera vittoria sta nel non tradire ciò che sentiamo e che ci spinge verso l’altro, anche se questo ci costringe a cambiare. Non ce lo dicono i manuali di self help o di evoluzione personale, ma il nostro stesso cervello.