Tra gli sportivi, professionisti o dilettanti, la prevalenza di disturbi del comportamento alimentare è più alta di circa 20 per cento rispetto alla popolazione normale. A dare questo dato è Renee McGregor, specialista in sport e disturbi del comportamento alimentare e autrice del libro “Othorexia” (Penguin Random House) .
“Non parliamo solo di sportivi di élite, ma di gli atleti che si allenano seriamente, che competono. Questi dati invece non tengono conto di tutta l’area legata al fitness e alle palestre. Se includessimo anche questa potremmo riscontrare una prevalenza ancora più alta”, spiega McGregor.
Conversando con l’ospite del podcast Simon Mundie, Renee McGregor traccia un quadro particolarmente preoccupante. Quadro con il quale concorda in pieno Laura Dalla Ragione psichiatra, fondatrice e direttrice della Rete per i Disturbi del Comportamento Alimentare della USL 1 dell’Umbria. “Paradossalmente lo sport, fatto in forma anche amatoriale intensiva oltre che professionistica, può costituire un fattore di rischio per i disturbi alimentari, soprattutto per quello che riguarda le discipline dove c’è una enfatizzazione della forma fisica in termini di magrezza. Quindi l’atletica leggera, l’equitazione, la danza, tutti gli sport da palestra come il body building, il ciclismo”, ci racconta in un’intervista.
Dalla Ragione lo spiega bene anche nel libro “Il gigante d’argilla” (Il Pensiero Scientifico Editore: “È possibile, infatti, che soggetti predisposti, ipercritici e insoddisfatti del loro corpo e del loro peso, in seguito al mancato conseguimento dei risultati attesi, sviluppino una visione negativa della propria immagine e facciano di tutto per ottenere un corpo più efficiente e armonico”.
Ma perchè chi pratica lo sport è così a rischio? “La prima cosa da dire è che non è una questione di sport, di cibo, neanche dell’immagine corporea”, spiega McGregor. “Il disturbo alimentare è solo una piattaforma che queste persone adoperano per proiettare ciò che sta realmente accadendo loro e spesso le persone più suscettibili (…) sono i perfezionisti, i più motivati, quelli più autocritici e ipersensibili, gli ossessivo-compulsivi”. Questo non vuol dire che tutte le persone che si riconoscono in queste categorie svilupperanno per forza un disturbo del comportamento alimentare (DCA), solo che nella pratica clinica si osserva che questi sono quelli più suscettibili.
La prima cosa da dire è che non è una questione di sport, di cibo, neanche dell’immagine corporea.
Come riconoscere un disturbo alimentare in uno sportivo?
Non è semplicissimo individuare un DCA nel mondo dello sport perché da un lato è facile scambiare attività fisica e attenzione all’alimentazione per comportamenti sani,
dall’altro perché in chi fa sport, fisicamente il disturbo alimentare
non salta all’occhio, non è evidente. Fino a un certo punto, come ci
racconta Dalla Ragione. “Dopo un po’ anche il fisico comincia a
risentirne perché l’attività fisica estrema, l’uso di diete
iperproteiche, l’uso anche di sostanze determinano un cambiamento che è
un cambiamento fisico ma soprattutto è psicologico: le persone che
cominciano a soffrire di disturbo alimentare non hanno più la gioia di
fare attività fisica. Diventa un obbligo, una necessità, una condanna
(…). Non c’è più nessuna allegria, nessuna gioia di farlo. Non c’è
neanche la condivisione con gli altri: sono ore e ore di estenuanti
allenamenti da soli”. Quindi ci sono questi due campanelli di
allarme: abitudini che diventano ossessive e contemporaneamente un
vistoso cambiamento di carattere.
Ci sono poi sintomi fisici che un medico non può ignorare e che possono essere rilevati in controlli regolari o quando un paziente si presenta dal medico in seguito a un infortunio (spesso chi fa sport in maniera intensiva e ha un disturbo alimentare è più propenso a infortuni, anche frequenti). “Alcuni dei sintomi più comuni per quanto riguarda le donne”, spiega McGregor, “è un ciclo mestruale irregolare o assente – permettetemi di dire che non è mai ok non avere il ciclo, mai. A meno che non si sia incinte o si stia allattando”. Altri sintomi – validi per tutti – che Renée McGregor individua sono: un sistema immunitario depresso, una bassa conta di globuli bianchi e/o rossi, scarsi livelli di ferro nel sangue, un sistema digerente erratico con alternanza di costipazione e diarrea, incapacità a concentrarsi, scarsa libido, umore altalenante.
Le persone che cominciano a soffrire di disturbo alimentare non hanno più la gioia di fare attività fisica.
Inoltre, molti pazienti sportivi hanno già alle spalle una storia di disturbo alimentare. “Circa il 50 per cento delle persone con cui lavoro hanno probabilmente avuto una precedente esperienza di un disturbo alimentare, di solito durante l’adolescenza. Quello che è successo è che si sono sottoposte a un trattamento e per questo hanno ufficialmente ‘recuperato’, il che significa che hanno recuperato un certo peso. Tuttavia non sono mai guariti mentalmente, non hanno mai veramente capito perché hanno finito per usare il cibo come mezzo per affrontare le loro difficoltà”, spiega la specialista alla BBC.
Le responsabilità dei social media
Renèe McGregor individua anche una responsabilità della diffusione di questi comportamenti anche nei social media: “Abbiamo
studi che provano che i social media hanno un impatto negativo sulla
salute mentale, sulla percezione del proprio aspetto fisico, del proprio
valore”. Secondo la specialista britannica, i social media
avrebbero come ruolo quello di creare un luogo dove convalidare i loro
comportamenti e mantenere tali comportamenti. Laura Dalla Ragione,
sottolinea poi il ruolo di cassa di risonanza: “I social e Internet
in generale amplificano tutti i messaggi, li rendono globalizzati e
universali. Nel caso di patologie come questa che sono patologie
cultural-bounded, cioè culturalmente correlate, la diffusione di un
certo tipo di modelli culturali, estetici, stili di vita e modelli
culturali è facilitata dai social media (…) Poi i social hanno anche un
versante ancora più pericoloso che è quello della diffusione dei siti pro Ana quindi di siti che diffondono l’anoressia non come una malattia ma come scelta di vita.
Esistono siti, esistono gruppi whatsapp, esistono forme di diffusione
di questo tipo di messaggio e questi sono molto pericolosi perché tutte
le ragazze anche quelle molto giovani di dieci undici anni li hanno
visitati”.
Sottolinea tuttavia Dalla Ragione come i social media non debbano assolutamente essere considerati una causa di questi disturbi quanto di fattori di diffusione di modelli culturali e di stili di vita. “Ricordiamoci sempre che le patologie alimentari sono patologie psichiatriche. Non sono causate da questo tipo di modalità; queste modalità ne possono spiegare la diffusione epidemica ma le cause sono cause profonde (…). Queste patologie sono delle nuove forme di depressione, delle depressioni moderne, che dal punto di vista fenomenologico si esprimono con queste caratteristiche perché corpo e cibo sono un’ossessione moderna; però non facciamo la confusione di dire che questi sono i fattori eziologici, sono solo i fattori di diffusione, però sono fattori molto pericolosi”.
Ricordiamoci sempre che le patologie alimentari sono patologie psichiatriche.
Come arginare questo fenomeno?
In primo luogo bisogna riconoscere che viviamo in un contesto che rende
difficile individuare le persone a rischio o quegli sportivi che già
sono caduti nella trappola del disturbo alimentare: “Tutta
l’ossessione per il fitness per il la forma fisica, tutta la miriade di
informazioni, false informazioni che circolano in rete, a bombardamento,
su questo tema, chiaramente creano un terreno fertile per questo tipo
di problematiche. E diventa difficile capire se una persona è entrata
dentro un’ossessione da fitness o è una persona che sta facendo
un’attività fisica per ragioni terapeutiche, legittime”. Secondo la psichiatra, bisognerebbe per prima cosa formare allenatori, trainer, insegnanti.
Il Coni sta già agendo su questo fronte con corsi per tutti i trainer e
gli allenatori che fanno parte di una federazione. Questo è
fondamentale per individuare questi disturbi nelle loro fasi iniziali. “Teniamo
conto che se il problema viene affrontato nel primo anno di storia di
malattia è più facilmente curabile; più passa il tempo invece più certi
comportamenti si cronicizzano e più sono difficili da eliminare”.
Sempre meno di genere
I disturbi del comportamento alimentare sono da sempre considerati patologie di genere. Di genere femminile. Tuttavia questo gap si sta riducendo e sempre più uomini sviluppano questo tipo di disturbi.
Secondo alcuni dei dati che ci ha riportato Laura Dalla Ragione, se 20
anni fa i maschi erano l’1 per cento della popolazione colpita da un
DCA, adesso sono il 10 per cento. Nella fascia tra i 13 e i 17 anni sono
il 20 per cento.
“Questa distanza si sta accorciando molto rapidamente quindi è possibile che anche per i maschi il corpo sia diventato uno scenario per la sofferenza per esprimere il disagio, cosa che era storicamente più per le femmine”, commenta la psichiatra. “Nel mondo dello sport la percentuale di maschi è più alta, si avvicina a un trenta per cento della popolazione che si ammala, e ci sono patologie che sono predominanti nel mondo maschile”. Queste sono la reverse anorexia o vigoressia, che sarebbe l’ossessione non tanto per la magrezza ma per la massa muscolare, e l’ortoressia, una patologia ancora non inserita nel DSM V, ma che è molto diffusa e può essere spiegata in poche parole come l’ossessione del mangiare sano.
Fonte : senti chi parla