Associazione che si occupa di disturbi del comportamento alimentare e violenza di genere.

Caratteristiche e limiti del paziente con Disturbo dell’Alimentazione nell’essere genitore

di Maria Grazia Giannini da “Genitorialità e disturbi del comportamento alimentare” – SISDCA

Il nostro rapporto con il mondo incomincia attraverso una relazione alimentare: il latte materno rappresenta la prima forma di dono ma anche il territorio in cui si inizia a costruire l’intelaiatura delle relazioni tra norma, appagamento e benessere individuale e perciò a impostare il bilanciamento tra le esigenze personali, auto ed etero regolazione, che costituirà la base della socializzazione primaria.

I dati del Ministero della Salute relativi ai decessi legati ai Disturbi dell’Alimentazione (DA) non accennano a diminuire e questo all’apparenza può sembrare strano se pensiamo che oggigiorno si possiedono conoscenze più approfondite sul problema ed i segnali del suo insorgere, e le cure sono molto più appropriate di anni fa.

Può succedere che un fisico affetto da DA mal curato o non curato affatto possa cedere nel corso degli anni e questo potrebbe essere uno dei motivi alla base della non diminuzione di questo tipo di decessi.

Una logica riflessione è che persone con DA possono essere diventate genitori e possono avere interagito con i loro figli convivendo con un problema così invasivo nella mente, nelle relazioni e negli affetti.

La condivisione, il rispecchiamento delle emozioni e l’esperienza della sicurezza nell’ambiente familiare hanno un’importante influenza sullo sviluppo affettivo e comportamentale del bambino e sulla nascita delle sue rappresentazioni del sé.

Già Hilde Bruch, nel 1973, aveva sviluppato un modello definito

dispercettivo, secondo il quale l’anoressia e l’obesità avrebbero in

comune un medesimo meccanismo patogenico: l’assenza o la perdita di risposte adeguate che i genitori dovrebbero dare ai segnali attraverso i quali il bambino manifesta i propri bisogni [1].

Chi vive dentro un DA non ha una precisa padronanza dei limiti del proprio Sé e non è in grado di riconoscere e differenziare le sensazioni corporee dalle tensioni emotive; inoltre manifesta un difetto di apprendimento primario, cioè ha acquisito, modificando in base ad una realtà distorta legata al disturbo, comportamenti, abilità, valori o preferenze e vari tipi di informazione. Per un genitore che ha un DA si può concretamente affermare che, in base a quanto spiegato dall’odierno panorama della teoria dell’attaccamento, il processo affettivo-relazionale genitore/figlio non si potrà sviluppare adeguatamente.

Si suppone, quindi, che se il processo affettivo relazionale di un genitore non si è sviluppato adeguatamente, se il nutrimento affettivo è stato carente o insufficiente, se l’unica strada possibile è stata quella di trovare fuori da sé un mezzo per sopravvivere ad un’ondata emotiva travolgente, se per affrontare tale ondata si sente di non avere argini sufficientemente forti, il cibo diventa poi schiavitù, dipendenza e causa di isolamento. E questo modello può essere trasmesso al figlio.

«Nel corso dello sviluppo dai due-tre anni fino alla pubertà, il figlio e la figlia vivono la loro vita psichica all’interno dell’archetipo materno regolato dalla madre reale, un mondo che deve essere ad un certo punto della crescita abbandonato. Nell’evoluzione normale il bambino percepisce in modo positivo la madre buona, che se rimane vissuta unicamente come buona non consente al bambino di svincolarsi da lei. Per riuscire a staccarsi dalla madre, infatti, il bambino deve percepire il polo negativo dell’archetipo materno e il polo positivo dell’archetipo paterno. Questa percezione costituisce un passaggio fisiologico» [2].

E’ ormai riconosciuto che il cibo costituisce, già a partire dalla prima infanzia, uno dei veicoli principali delle relazioni. Il riconoscimento dei ritmi del succhiare e del mangiare esprime la capacità del genitore di instaurare una regolazione interattiva rispettosa delle

potenzialità biologiche, cognitive e affettive del bambino che si organizzano progressivamente, nel corso della crescita, secondo modalità sempre più articolate e complesse. Questa capacità è basilare soprattutto perché non è solo un’attitudine accuditiva; essa ricapitola in un certo senso l’esperienza evolutiva del genitore e la sua capacità di accompagnare le tappe di autonomizzazione del figlio e di tollerarne la separazione. Nel genitore con DA questa funzione è confusa con il rischio che la separazione dal figlio non avvenga in tempi e modi sani. Per chi vive con un DA è difficile anche la “regolazione” degli affetti e delle emozioni e diventerà difficile la gestione della distanza relazionale fra il genitore, l’adolescente e la fratria. Ad esempio, se il genitore è molto ansioso, il figlio, che avverte quest’ansia, può vivere nel timore permanente di un pericolo, reso tanto più inquietante dal fatto che è sconosciuto e che non sa a chi sia diretto. In tale atmosfera egli avrà molte difficoltà ad esprimere i suoi desideri, soprattutto se li percepisce come intensi, addirittura violenti o aggressivi. L’ansia genitoriale può provocare nel figlio comportamenti eccessivi di controllo e di verifica che lasciano poco spazio alla necessaria libertà ed ai piaceri condivisi. Il genitore può trasmettere il proprio modo di vivere e i propri desideri come potenzialmente pericolosi, e il figlio imparerà, tramite una modalità imitativa, a reprimerli, a scapito dell’affermazione del sé. Se invece il genitore vive con comportamenti eccessivi di controllo e di verifica questi lasceranno poco spazio alla necessaria libertà ed ai piaceri condivisi. Se l’ansia porta i genitori a non fidarsi di se stessi e delle proprie emozioni che, poiché minacciano di sopraffarli, devono essere controllate e dominate limitando quindi le manifestazioni di affetto e di tenerezza tenendosi fisicamente a distanza dal bambino, in modo speculare, i figli reprimeranno a loro volta il bisogno di vicinanza fisica e di espressione emozionale.

Ad oggi non esistono studi longitudinali che abbiano indagato se il disfunzionamento familiare preceda o segua l’insorgere dei disturbi alimentari. Sappiamo però che esiste una forte analogia tra le relazioni affettive e la relazione con il cibo; si tratta di relazioni che oscillano tra il tutto e il niente, fra relazione fusionale e autosufficienza. Una caratteristica nota da tempo ai clinici e rilevata

in numerose ricerche è proprio la preoccupazione dei familiari di pazienti con DA per il cibo. Il fatto più comune è che un genitore abbia lottato a lungo per il controllo del peso e si sia sottoposto ripetutamente a diete; una tale vicenda ha numerose conseguenze; ad esempio un effetto di modellamento sui figli che emulano direttamente il comportamento del genitore. Altri casi evidenziano che non è la preoccupazione per il peso da parte del genitore a provocare il disturbo nel comportamento alimentare dei figli, quanto l’eventuale preoccupazione o critica esplicita del genitore nei confronti del peso dei figli.

Hilde Bruch afferma di aver assistito, nel corso degli anni, alla trasformazione del Disturbo Alimentare da disturbo individuale a disturbo sociale. Fino agli anni Sessanta si verificavano, a suo parere, casi di anoressia in soggetti che non avevano mai sentito parlare in precedenza del disturbo: era come se ciascuno ricreasse i sintomi a partire dalla propria esperienza personale.

Successivamente, man mano che il disturbo si diffondeva e diventava famoso, anche il quadro clinico subiva una trasformazione; questo ci porta a pensare che il modello di alimentazione disturbata possa ritrovarsi nella famiglia d’origine [1]. Una caratteristica singolare della maggior parte dei genitori con disturbi dell’alimentazione è la mancanza di un senso del Sé: emozioni, pensieri e azioni non sono percepiti come propri ma, al contrario, come richieste provenienti dall’esterno. Spesso essi non desiderano raggiungere una maggiore comprensione della malattia, poiché, malgrado la loro infelicità e l’impossibilità di condurre una vita normale, non vogliono perdere i sintomi. Questo ha una grande influenza sul processo di internalizzazione del figlio e quindi sulla creazione di una propria identità. I figli di genitori con DA potrebbero non riuscire a percepirsi come un corpi autonomi che si muovono nello spazio né a fidarsi di se stessi come individui separati che possono esplorare il mondo e viverci [3].

Osservando famiglie in cui un genitore ha un DA si possono individuare le seguenti caratteristiche comuni:

la scarsa comunicazione; le cattive relazioni familiari;

la mancanza di risoluzione di conflitti; l’iperprotettività;

la rigidità e la mancanza di adattamento; la mancanza di coesione tra i membri;

la mancanza di confini;

le alte aspettative da parte dei genitori;

i convincimenti cognitivi e comportamentali errati della famiglia circa l’alimentazione, i problemi di peso e l’apparenza fisica;

la pressione esercitata dai familiari sull’apparenza e l’aspetto fisico;

una storia familiare di depressione o abuso di alcol;

una storia di abuso psichico, fisico o sessuale all’interno della famiglia.

In ogni famiglia sono necessarie delle regole che dovrebbero permettere di acquisire un maggior senso di appartenenza, favorire l’intimità e l’unità, e cambiare quando i figli crescono, dando loro la possibilità di sperimentare il proprio individuale valore del mondo.

Quando un genitore ha un Disturbo dell’Alimentazione difficilmente riesce a comprendere la necessità di un cambiamento; se le regole sono rigide probabilmente i figli faticheranno ad acquisire un senso di autonomia, e si sentiranno inutili e controllati; se invece le regole sono confuse i figli potranno acquisire una pseudoindipendenza precoce che non li proteggerebbe dalle insicurezze e dall’ansia [4]. Tutti ormai sappiamo che ognuno di noi apprende il proprio modello di famiglia nella famiglia di origine; da questo modello impariamo il modo con il quale porci in relazione con l’esterno [5], si vive l’appartenenza e si sperimenta la separazione; è nella famiglia d’origine che si costruisce il modello emozionale, la famiglia è il luogo primario di apprendimento: famiglia come matrice di pensiero (matrix = utero). E’ quindi facilmente comprensibile come una famiglia in cui il genitore sia affetto da DA possa fornire un modello non sano anche sforzandosi, a parole, di dare buone “indicazioni” al figlio.

«E ci sgridavi… e ci fulminavi con gli occhi se scoprivi che qualcuno

di noi gettava in terra briciole di pane… E poi… alla fine del pasto scoprivamo che sotto la tua seggiola era pieno di molliche» [6].

Questa frase è esplicativa di ciò che viene detto ma non messo in pratica. In tal modo il contenuto può risultare falso al figlio e può scatenare azioni contrarie alle parole del genitore.

Negli ultimi anni si è parlato spesso di un fattore genetico che potrebbe essere alla base dell’insorgenza dei Disturbi dell’Alimentazione. In una intervista alla Dott.ssa Laura Dalla Ragione [7] si legge: «Oggi, la dicotomia tra ambiente e genetica è stata superata. Ora, la comunità scientifica accetta che ci sia una componente epigenetica, oltre a quelle familiare, psicologica e traumatica, che contribuisce all’espressione del disturbo. C’è concordanza sul fatto che una vulnerabilità genetica possa far sì che la persona esposta agli altri fattori sviluppi più facilmente un disturbo alimentare». Questo è altro da ciò che può essere instaurato in un sistema famiglia se un componente sviluppa questo disturbo. Il modello sistemico analizza il comportamento e la struttura psicologica dell’individuo mettendo in rilievo la continuità degli influssi che i membri della famiglia hanno l’uno sull’altro ed è facilmente comprensibile come un genitore con DA influisca in tutto il sistema famiglia [8].

Riporto un grafico relativo ad una rilevazione fatta dall’Associazione “Il Bucaneve” sull’età delle persone afferite allo Sportello di Ascolto organizzato dall’Associazione stessa. Si evidenzia che una fascia rilevante di questi soggetti ha un’età compresa tra i 36 e i 55 anni e tra i 56 e i 65. Queste persone possono sicuramente essere diventate genitori, in tal modo influenzando la prole con il proprio modo di vivere.

L’accettazione, l’accoglienza, l’ascolto, il rispetto della natura e dei bisogni propri e degli altri, è la condizione fondamentale per vivere senza che nasca internamente il senso di colpa verso noi stessi e chi amiamo. Il genitore con DA può rendersi conto di aver influito, seppur involontariamente, sulla creazione di dinamiche malate nel figlio; a questo punto è possibile che in lui nasca un sentimento di vergogna o di orgoglio che lo aveva precedentemente indotto a non ricorrere alle cure, ma che ora, di fronte al problema nascente del

figlio, stimola in lui il desiderio di porre rimedio al problema costringendolo a curarsi. Probabilmente questo nasce dal seguente pensiero: se non sono stato in grado di salvare me stesso posso però impedire che questo non succeda a chi amo, come se, tramite questo, potesse spezzare la catena di un sistema educativo che ha poi generato il suo problema, come se in questo modo potesse risolvere situazioni problematiche irrisolte.

Può capitare che chi diventa genitore abbia “convissuto” con il disturbo per molti anni. Questo aspetto potrebbe essere un fattore di complicazione per la guarigione; si tratta infatti di cronicizzazione, un termine che può far pensare a qualcosa di irrisolvibile, senza sostanziali prospettive di soluzione. Sappiamo che esiste da parte dei figli il debito di riconoscenza che in certi casi diventa anche un debito cattivo da riscattare. In presenza di un genitore con DA non di rado sono presenti ricatti affettivi che trasformano il debito in colpa o in un sacrificio ingiusto della propria autonomia. Un incentivo che potrebbe far mettere in atto al genitore affetto da DA interventi terapeutici al fine di risolvere lo stallo del problema è l’idea di poter “dare l’esempio” al proprio figlio al fine di vivere affrontando i problemi e trasformare quindi il proprio esempio come un bene prezioso per la prole.

«Siamo la somma di tutto quello che è successo prima di noi, di tutto quello che è accaduto davanti ai nostri occhi, di tutto quello che ci è stato fatto. Siamo ogni cosa, ogni persona la cui esistenza ci abbia influenzato o che la nostra esistenza abbia influenzato. Siamo tutto ciò che accade dopo che non esistiamo più e che non sarebbe accaduto se non fossimo mai esistiti». (dal film Almanya, 2011).

Bibliografia

1.            Bruch H (1998), La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale, Feltrinelli, Milano

2.            Gordon Richard A (2004), I modelli della malattia Anoressia e bulimia, Anatomia di un’epidemia sociale, Raffaello Cortina Editore, Milano

3.            Williams G, Williams P, Desmarais J, Ravenscroft K (2007), La generosità dell’accettare. Bruno Mondadori, Torino

4.            De Giacomo P, Renna C, Santoni Rugiu A (2005), I fattori familiari. Manuale sui disturbi dell’alimentazione. Anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione incontrollata, Franco Angeli, Milano

5.            Donati P (1966), Manuale di sociologia della famiglia, Adorno.

6.            Kafka F (1972), Lettera al padre, Oscar Mondadori, Milano

7.            Dalla Ragione (2017), Omar osservatorio malattie rare

8.            Minuchin S, Rosman BL, Baker L (1980), Famiglie psicosomatiche. L’anoressia mentale nel contesto familiare, Astrolabio, Roma